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Dal setter inglese a quello d'Italia

In cinegetica i concetti di bravo, buono e campione sembrano soffrire di particolare relatività; insieme ad essi i giudizi e le verità riportate a voce come in libreria sembrano avere più il sapore di favole che di cronache.

Sino dagli anni '60 per il setter inglese i concetti di relatività venivano ulteriormente moltiplicati; infatti la razza era già esageratamente numerosa, estremamente variegata, dispersa in rivoli di famiglie più virtuali che sostanziali rappresentative di piccoli segmenti di un immenso patrimonio già composto di centinaia di migliaia di soggetti.

Sulla carta si chiamavano tutti setter inglesi; in realtà erano in molti a definirli semi bastardoni, di scarsa omogeneità ( almeno i più) e tenuti insieme (per fortuna) dalle uniche e più importanti caratteristiche necessarie: l'animus e la buona capacità di adattarsi ad ogni tipo di caccia , collante importante che ha retto la razza per cinquant'anni contro i tentativi di deviazioni operati in molte manifestazioni espositive e in buona parte delle prove di lavoro.

E' sempre ed esclusivamente esistito un unico e quasi inconsapevole controllo di razza "a valle" attraverso la caccia e la selvaggina vera che, entrambi, producevano una buona selezione; i superstiti ritornavano in vetta al circolo della selezione per ricadere ciclicamente nello stesso. In aggiunta e sempre "a valle" è sempre esistita una discreta selezione in certa parte delle prove di lavoro.

Oggi i controlli "a valle" hanno perso di efficacia e ciò per mancanza di vera selvaggina. E' sicuramente necessario introdurre una serie di controlli "a monte ". A tale proposito mi sento di condividere gran parte delle considerazioni e proposte lette recentemente nell'articolo " Produzione comune e selezionata nelle razze da ferma" di Marcello Villa apparso sul n. 4 di Aprile 2007 della Gazzetta; mi prefiggo un approfondimento, anche programmatico, con l'estensore e per bontà sua.

Già allora si diceva che la caccia si era assunta il ruolo di sanare ciò che expo e prove di lavoro sembravano guastare. Come riprova si notava come nei paesi (anche quelli di origine) dove tali forme di caccia venivano meno la razza faceva inesorabilmente la stessa fine.

In Italia invece erano gli anni del milione di cacciatori che, incuranti delle sofisticazioni psico-estetiche e delle partigianerie morfo-comportamentali , si interessavano con pochi fronzoli di carniere, di istinto predatorio, di rendimento e di "saccona"! Il resto per i più erano discussioni da salotto e niente di più.

Erano gli anni in cui l'Europa del Nord perdeva piano piano i setters di Laverack e gli italiani invece li salvavano, a caccia, forse senza saperlo, molto modificati negli anni, ma li salvavano; tanto è vero che oggi finalmente si può parlare di setter inglese d' Italia, molto modificato rispetto a quello iniziale, più consono ai gusti e ai tempi moderni e che, al contrario dell'altro, ha praticamente conquistato il mondo venatorio; anche in expo l'inglese originario ha finito con il regredire esageratamente, tant'è che è difficile contare presenze superiori a 5/10 soggetti per expo.

Per il setter e non solo durerà? Probabilmente no, se non si interviene e visto il continuo arretramento qualitativo dell'ars venandi, arte della quale l'attuale setter italiano è figlio e insieme promotore indiscusso. Pensate che per questo tipo di cane i rings europei sono quasi preclusi e nei rings italiani sembra tollerato nella solo classe lavoro per l'esclusivo e fatidico "molto buono" necessario alla proclamazione a campione.

Che sciocchezza grossolana e che perdita di opportunità!